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    Era evidente come, tali limiti, potessero e dovessero

 

considerarsi “spostabili” in relazione alla vita dei coloni

 

bianchi.

 

     Tuttavia, la zona ideale che sembrava più confacente a

 

una vasta immissione di nuovi lavoratori, appariva quella

 

tra i 1800 e i 2400 metri.

 

     Quanto alle altre dimensioni, si poteva affermare -

 

sempre ai fini della colonizzazione che ci interessava, e

 

sempre ferma restando la sommaria limitazione altimetrica

 

accennata - che il territorio presentava incoraggianti at-

 

titudini alle necessità della colonizzazione demografica,

 

procedendo da est verso ovest. Nel senso poi nord-sud, ta-

 

li attitudini si riscontravano particolarmente nella parte

 

centrale.

 

     In conclusione, la zona centro-occidentale dell’Impe-

 

ro era quella che si presentava,in prima approssimazione,

                    

come la più rispondente alla realizzazione di una vasta co-

 

lonizzazione demografica metropolitana.

 

     Vasta perché “nessun altro territorio dei nostri pos-

 

sedimenti d’oltre mare, né di altre regioni africane da noi

 

conosciute” - ad esempio gli altipiani del Kenia e del Tan-

 

ganica e quelli dell’Ovest africano angolese - “sembrava

 

offrire, nel complesso, più vaste superfici adatte per un

 

notevole sviluppo di vita rurale europea”.

 

     Era opinione comune che l’Impero potesse offrire note-

 

volissime possibilità in tal senso; si trattava, in fin dei

 

conti, di territori “la cui ampiezza complessiva si poteva

 

commisurare nell’ordine di grandezza di diverse province

 

italiane riunite insieme”.

 

     E tutto questo considerando esclusivamente l’aspetto

 

fisico del territorio, e al di fuori di ogni considerazione

 

limitativa di altro ordine (economico, sociale, politico),

 

nonché problemi organizzativi del territorio, come comuni-

 

cazioni, mercati, trasporti ecc.

 

     Esaminando in seconda approssimazione il territorio

 

considerato ai fini della colonizzazione demografica, c’era

 

un’altra realtà, di grande importanza, da tener presente:

 

l’esistente notevole popolamento del territorio utile.

 

     Questo era uno degli aspetti di indiscutibile interes-

 

se, in quanto “ la popolazione di un territorio rappresenta

                      

il fattore fondamentale del suo valore, e non un semplice

 

accessorio”.

 

     Alle prime superficiali analisi, il territorio dello

 

Impero appariva quasi spopolato. Ragioni contingenti, modi

 

particolari d’insediamento che, in rapporto al paese, si

 

poteva definire “mimetico”, nonché altri elementi, indusse-

 

ro in errore i primi osservatori.

 

     C’erano si, zone meno popolate, soprattutto quelle

 

dell’ovest e del sud-ovest, ma per ragioni non attinenti a

 

deficienze fisiche del territorio (regioni, queste, tra le

 

migliori dell’Impero), bensì conseguenti a particolari de- 

 

terminanti politiche, e cioè alla barbarica amministrazio-

 

ne spoliatrice e terroristica attuatavi dai dominatori di

 

razza Amhara che, in alcuni territori, come ad esempio nel

 

Caffa, con la sterminatrice “tratta degli schiavi”, ne de-

 

terminò il quasi completo annullamento demografico.

 

     Tale situazione avrebbe avuto evidentemente particola-

 

ri riflessi sugli sviluppi e sui modi della colonizzazione

 

metropolitana di tali regioni. Ma, ad eccezione di tali zo-

 

ne, in linea generale era da confermare il notevole popola-

 

mento del territorio che ci interessava.

 

     Abbiamo già sottolineato, del resto, il pensiero impe-

 

rante secondo cui “il popolamento di un territorio rappre-

 

senta la base fondamentale della sua importanza e del suo

 

valore”.

 

 

     Infatti, è assiomatico che “ una massa di più milio-

 

ni di uomini rappresenta, oltre ad un grande valore socia-

 

le, una notevole forza economica e politica, e che saper-

 

sela accattivare significa raggiungere un conseguente au-

 

mento di potenza”.

 

     Era opinione comune che, la frenetica e considerata

 

ignominiosa avversione alla nostra impresa africana, venne

 

suscitata e guidata da egoismi di pantagrueliche nazioni

 

non certo per i più o meno numerosi chilometri quadrati

 

“guadagnati alle braccia del nostro proletariato agricolo”,

 

ma essenzialmente per i milioni di uomini acquisiti alla

 

italica possibilità organizzativa, considerati “un eccezio-

 

nale aumento del nostro prestigio politico e della nostra

 

potenza economica e militare”.

 

Terza approssimazione: l’accennata massa di popolazione vi-

 

vente nei territori considerati, era dedita essenzialmente

 

all’agricoltura e alla pastorizia, attività che costituiva-

 

no la base dell’economia locale.

 

     Si è rilevato come in tali territori, ovunque fosse

 

possibile l’esercizio utile di una sia pur modesta agricol-

 

tura, tale attività vi veniva esercitata con una relativa

 

intensità, limitatamente - è chiaro! - ai poveri mezzi e

 

alle modalità primitive degli indigeni.

 

 

Sulle più alte pendici, sulle cime montane, sui pianori

 

del miglior terreno - fino ed oltre i 3000 metri sul ma-

 

re - non v’era territorio, passibile di qualche produzio-

 

ne agraria, dove l’indigeno non applicasse la propria at-

 

tività rurale con una tecnica che per essere, come si è

 

detto, primitiva, non mancava tuttavia di una tenace ac-

 

cortezza: terrazzamenti eseguiti con faticosissima cura,

 

lavorazioni molteplici attuate fino a cinque volte per il

 

più completo approntamento del terreno stesso prima di af-

 

fidarvi la semente, sono l’indice della paziente fatica con

 

la quale, specie le popolazioni Galla, attendevano alla

 

propria agricoltura.

 

     Viaggiando sul territorio, e soprattutto sorvolandolo

 

a bassa quota con l’aereo, non si poteva non rimanere col-

 

piti dalla innumerevole e minuta scacchiera di campi colti-

 

vati che caratterizzava tutto il territorio, ovunque fosse

 

agrariamente utilizzabile.

 

     “Campi di frumento, orzo, farinacei in genere, alter-

 

nati a zone di pascolo e terreni a turno di riposo, si mol-

 

tiplicano allo sguardo per ore e ore di volo in tutte le

 

direzioni del territorio disseminato di tucul (tipica ca-

 

panna dell’agricoltore indigeno), caratteristicamente uni-

 

ti sotto l’immancabile ciuffo di eucalipti e di ginepri”.

 

 

 

 

Anche questa caratteristica era importante non sottovalu-

 

tare, dovendo impostare realistici programmi di colonizza-

 

zione metropolitana.

 

     Prescinderne, avrebbe costituito, oltre ad una puerile

 

ingenuità, grave errore dal punto di vista non solo econo-

 

mico ma politico, mettendo a rischio il successo dell’inte-

 

ra missione.

 

     Per quanto concerne la proprietà e il possesso, la si-

 

tuazione di fatto si rivelava notevolmente complessa, e

 

l’Italia non poteva concedersi il lusso di non considerar-

 

la in maniera adeguata.

 

     “Il diritto di uno Stato dominatore civile, diritto

 

incoercibile e incontrovertibile - specialmente quando, co-

 

me nel caso italiano, nasce da una vittoriosa conquista in

 

funzione di colonizzazione - non può tuttavia distruggere

 

reali diritti delle popolazioni indigene, nei limiti delle

 

loro imprescindibili necessità di vita”.(*)

 

     Ciò venne chiaramente e solennemente affermato all’at-

 

to della proclamazione dell’Impero.

 

     Il che non significa che lo Stato dominatore non do-

 

 

 

___________________

 

(*) POGGIALI C., Albori dell’Impero. L’Etiopia: com’è e co-

    me sarà., Bergamo, Ed.Treves, 1938-XVI.

 

 

 

 

vesse e non potesse regolamentare, secondo i propri fini

 

sociali di colonizzazione e di “vivificazione” del terri-

 

torio, tutta la materia concernente tale complesso proble-

 

ma.

 

     Da autorevoli studiosi, particolarmente introdotti

 

nella materia, venne affermato “doversi assumere come pun-

 

to fermo, che l’acquisto di territori in funzione di colo-

 

nizzazione, qualifica il rapporto che si costituisce nei

 

riguardi del territorio” e fu dimostrata “la vacuità di

 

certi principi che alcuni colonialisti amano proclamare

 

col titolo di politica indigena e cioè che lo Stato non

 

dovrebbe intervenire nelle istituzioni indigene anche fon-

 

diarie, ma lasciarle vivere secondo la tradizione e le co-

 

stumanze millenarie.  Se vi è materia in cui lo Stato deve

 

intervenire è proprio questa, e ve lo conduce fatalmente

 

la sua missione” (*).

 

     Si trattava, naturalmente, di determinare i più op-

 

portuni modi, tempi e limiti.

 

     Non si ha, in questa sede, interesse ad entrare nella

 

 

 

 

_____________________

 

(*) COLUCCI M., Elementi per lo studio degli ordinamenti

    dell’A.I. - I presupposti storici e giuridici,in “Ri-

    vista Diritto Agrario”, Firenze, aprile-giugno 1937-XV.

 

complessa materia del diritto fondiario indigeno, soprat-

 

tutto relativamente ad un territorio di popolazioni e stir-

 

pi così varie e diverse le une dalle altre; non si vuole

 

neanche entrare nel merito delle più o meno incerte origi-

 

ni di tale diritto, con i suoi vari adattamenti e trasfor-

 

mazioni nel tempo e nello spazio; non tratteremo, inoltre,

 

neppure del più limitato campo dei rapporti tra proprietà

 

e lavoro, cioè dei “contratti agrari” che, pur essendo di

 

competenza della nazione colonizzatrice, non erano certa-

 

mente precisati, nell’epoca in questione, in tutta la va-

 

sta gamma della loro esplicazione.

 

     Quello che si desidera specificare in tale paragrafo

 

si limita all’affermazione della necessità di chiarire il

 

concetto stesso del diritto fondiario indigeno, nella sua

 

accezione più ampia, nonché dell’accertamento dei rapporti

 

tra gli indigeni e la terra.

 

     Questo si traduce, rapportato ai tempi oggetto della

 

presente ricerca, nel “presupposto evidente di un futuro

 

ordinamento, definitivo ed adeguato, di tutta la materia

 

delle concessioni terriere per la colonizzazione italia-

 

na”.(*)

 

____________________

 

(*) ASQUINI A., La politica economica dell’Italia in Etio-

    pia in “Annali dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona,

    A.Mondadori, 1938-XVI.

 

 

     Ma la considerazione più importante da fare è che, non

 

potendo l’Italia aspettare gli esiti di tale completa rile-

 

vazione, che per la sua complessità e per il suo particola-

 

re carattere avrebbe richiesto troppo tempo, si superò in

                      

una prima fase tale pregiudiziale, così da potere ugualmen-

 

te avviare programmi di colonizzazione demografica in atte-

 

sa del completamento di quelle rilevazioni.

 

     Si decise, giustamente, di non turbare in maniera pro-

 

fonda, specialmente in un primo tempo, i rapporti che lega-

 

vano il lavoratore indigeno alla terra, non solo per evi-

 

denti interessi di opportunità politica, ma anche per esi-

 

genze di mera convenienza economica.

 

     In una pubblicazione del prof. Mazzocchi-Alemanni (*)

 

del 1918, compilata sulla scorta di una non breve esperien-

 

za di colonizzazione del territorio libico, si scriveva:

 

“L’indigeno che ha il proprio campo da coltivare, che dalla

 

propria terra trae il sostentamento della famiglia, soprat-

 

tutto se ha la garanzia di poter tranquillamente attendere

 

ai propri lavori, è elemento conservatore per eccellenza;

 

 

 

 

______________________

 

(*)MAZZOCCHI-ALEMANNI N., L’Agricoltura nella politica co-

   loniale, Zuara (Tripoli), marzo 1918, riprodotta in “A-

   gricoloniale”, Firenze, giugno-luglio 1919.

 

ed è facile assai, anche per una elementare capacità ammi-

 

nistrativa e politica, tenerlo saldo contro lusingatrici

 

follie ribelli. Questa è penetrazione di non dubbio risul-

 

tato, è politica che non tradisce”.

 

     E ancora:

 

“Rallentando i vincoli che legano il colono indigeno alla

 

terra, sminuendo l’interesse di questo all’esplicazione di

 

una intensa attività agricola, toltagli la fisionomia di

 

comunque compartecipe agli utili, avremo di costui fatto un

 

operaio più o meno disinteressato all’andamento dell’azien-

 

da: avremo,ciecamente, trasformato un’intera classe di par-

 

tecipanti alla produzione - elementi di ordine e di tran-

 

quillità - in una massa di proletariato facilmente turbo-

 

lento e sul quale pronta presa possono avere idee e lusin-

 

ghe di ribellione. Avremo, insomma, con la nostra opera ne-

 

gativa, compiuto un grande errore politico che potrebbe

 

tornarci sommamente infausto”.

 

     E’ stupefacente come, nonostante i quasi trent’anni

 

trascorsi, nulla fosse da cambiare in merito a quanto so-

 

pra, sintesi di un antico pensiero.

 

     Ma, a parte le considerazioni d’ordine sociale e poli-

 

tico, già allora si affermava l’essere indubbio interesse

 

economico non sradicare il contadino indigeno dal lavoro

 

della terra perché, contrariamente al pensiero di chi non

 

aveva mai vissuto l’organizzazione di una qualsiasi attivi-

 

tà agraria in paese similari, si riteneva la collaborazio-

 

ne, almeno parziale, del coltivatore e pastore indigeno,

 

particolarmente utile e valida ai fini della sana imposta-

 

zione economica di una colonizzazione anche demografica.

 

     Per quanto concerne l’argomento “terre disponibili”,

                  

gli interrogativi abbondavano:

 

 

- “Come ci si potrà inserire nella realtà di popolamento

 

   e di agricoltura indigena ai fini del colonizzamento

 

   metropolitano?”

 

- “Sarà possibile attivare in un simile territorio una

 

   concreta e proficua nostra attività rurale a tipo de-

 

   mografico?”

 

- “Sarà possibile operare con efficacia in tale attività

 

   agraria indigena?”

 

 

     La risposta, univoca, a tutti questi interrogativi

 

non poteva che essere positiva, e questo senza danni di

 

natura economica e senza alcun turbamento politico.

 

     C’è da confermare come sussistessero, in vastissime

 

zone (ovest e sud-ovest), ampi territori di scarso popola-

 

mento, ciò nonostante ottimi dal punto di vista della pos-

 

sibile vita attiva dei nostri rurali.

 

    Problemi tecnici particolari, in tali zone, non erano

 

di più difficile soluzione che altrove.

 

     Erano, inoltre, proprio quelle zone, dove anche i pro-

 

blemi di carattere fondiario presentavano soluzioni ancor

 

più semplici, rapportati ad una nostra vasta inserzione co-

 

lonizzatrice.

                                    

     Si aggiunga come, anche nei territori più popolati e

 

coltivati, non mancassero terre vacanti per ragioni diver-

 

se, comprese vaste zone demaniali.

 

     La ricognizione di tali terre avrebbe comportato ne-

 

cessariamente tempi lunghi, ma sarebbe stata effettuata to-

 

talitariamente. Questo avrebbe sicuramente facilitato la

 

costituzione, tramite accordi speciali, dei necessari ac-

 

corpamenti di zone organiche per la colonizzazione demogra-

 

fica.         

 

     Altra considerazione di importanza non secondaria, ri-

 

guarda tutte quelle terre che non potevano essere utilizza-

 

te, sotto il profilo agrario, per il loro accertato stato

 

di disordine idraulico.

 

     Non ci si riferisce alle zone fuori del territorio og-

 

getto del nostro interesse, né di zone, pur esistenti in

 

detto territorio,ma che avrebbero richiesto imponenti e co-

 

stose opere di sistemazione, le quali, in una ragionevole

 

gerarchia di priorità, non rientravano in quel momento tra

 

le urgenze; bensì parliamo di quelle più o meno sparse zone

 

di terreno - talvolta anche di notevole estensione - nelle

 

quali opere relativamente modeste di sistemazione idraulica

 

sarebbero state sufficienti a conquistarle alla colonizza-

 

zione agricola.

 

     Terreni che, per essere generalmente di origine allu-

 

vionale e giacenti in piano, potevano essere suscettibili,

 

una volta risanati, della maggiore produttività.

 

     Specialmente lungo le direttrici di comunicazione e

 

nelle adiacenze di centri e di mercati, la modesta spesa ad

 

ettaro occorrente per il risanamento,avrebbe trovato la più

 

larga giustificazione e il più sicuro e rapido compenso.

 

     Tutto ciò portava a concludere che “non sarà da temere

 

una scarsa disponibilità di terra ai fini della colonizza-

 

zione che ci interessa”.(*)

 

     Naturalmente, tale disponibilità sarebbe progressiva-

 

mente aumentata col progredire della organizzazione civile

 

della colonia, particolarmente con il progredire della rete

 

stradale del territorio.

 

 

 

___________________

 

(*) ASQUINI A., La politica economica dell’Italia in Etio-

    pia in “Annali dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona,

    A.Mondadori, 1938-XVI.

  

 

 

     Era comunque opinione comune che, in attesa del lungo

 

lavoro di ricognizione dei terreni, si potesse, senza trop-

 

pa difficoltà, avviare una notevole opera di colonizzazione

 

demografica anche nelle zone più popolate e coltivate.

 

     Uno dei modi per realizzare ciò era quello delle per-

 

mute, mezzo che, saputo accortamente manovrare, avrebbe po-

 

tuto dare notevoli risultati. Si trattava, come dice la pa-

 

rola, di concordare con i proprietari di una determinata zo-

 

na che si voleva colonizzare, il cambio dei loro terreni con

 

terreni in altra zona di pertinenza demaniale, o dei quali,

 

comunque, il Governo avesse la disponibilità (confische di

                      

guerra, donazioni, ecc.).

 

     L’accordo non era troppo difficile a concretarsi. Si

 

trattava, talvolta, di compensare differenze di valore, con

 

ragguagli di ampiezza, con concessione di particolari premi

 

o piccole opere utili (pozzi, abbeveratoi, ausilio nelle ri-

 

costruzioni di tucul ecc.).

 

     Ma l’accorgimento più utile nel realizzare tali permu-

 

te, stava nel non allontanare dal territorio la popolazione

 

contadina indigena: mentre il proprietario passava al nuovo

 

terreno datogli in permuta, il contadino restava sul vec-

 

chio. Ciò rispondeva all’accennata opportunità economica di

 

associare in vario modo, ed essenzialmente attraverso forme

 

di compartecipazione più o meno consuetudinarie, il lavoro

 

degli indigeni (coltivatori e pastori) all’azienda poderale

 

metropolitana.

 

     E’ anche evidente il notevole contenuto politico di ta-

 

le direttiva, per la quale, ad esempio, 50 proprietari veni-

 

vano spostati e 2000 contadini restavano sul posto, poiché

 

solo in tal modo le popolazioni indigene non allontanate

 

dalle proprie sedi e dal proprio consueto lavoro, potevano

 

contribuire alla valorizzazione metropolitana del territo-

 

rio e, assicurando a se stesse migliori condizioni di vita,

 

diventavano le più pacifiche e utili collaboratrici della

 

italica opera di penetrazione civile.

                    

 

     Abbiamo visto come fosse senza meno indubbia la conve-

 

nienza pratica di utilizzare, nell’azienda, il lavoro indi-

 

geno nelle forme sopra accennate.

 

     Si trattava di integrare la capacità lavorativa della

 

famiglia colonica italiana con forme salariali e, soprattut-

 

to, di compartecipazione indigena, così da consentire alla

 

famiglia colonica stessa, fin dal primo tempo di ambienta-

 

mento e di esecuzione delle opere di trasformazione fondia-

 

ria, di valorizzare in pieno l’intera superficie poderale

 

destinatale.

 

     Tale superficie doveva essere necessariamente di note-

 

vole ampiezza, per fornire alla famiglia stessa la possibi-

 

lità di una vita conveniente, in relazione al proprio svi-

 

luppo demografico, e la possibilità di un agevole e non lon-

 

tano riscatto del podere.

 

     Inoltre (e ciò era da tenere particolarmente presente

 

a proposito di alcune preoccupazioni d’ordine politico-so-

 

ciale), una tale direttiva avrebbe giovato a dare una mag-

 

giore dignità alla famiglia colonica metropolitana, desti-

 

nata così ad assumere, nella propria sia pur modesta azien-

 

da rurale, il vero e proprio comando dell’impresa.

 

     Altro problema particolarmente sentito era quello re-

                   

lativo “ai pericoli della promiscuità”. Per evitarli, non

 

erano sufficienti leggi all’uopo promulgate, ma era neces-

 

sario creare, nella mentalità del colonizzatore, la deter-

 

minante del maggior prestigio del colono metropolitano.

 

     Si era individuata la risoluzione del problema prov-

 

vedendo alla più opportuna dislocazione degli abitati po-

 

derali (case delle famiglie metropolitane opportunamente

 

distanziate dai tucul degli indigeni) con soluzioni diver-

 

se, una delle quali poteva essere quella adottata dalla

 

O.N.C., esplicitata con capitolo a parte.

 

     Ma ad un’altra opportunità rispondeva la direttiva

 

accennata. Una delle più giustificate preoccupazioni nel-

 

l’impostare programmi di colonizzazione demografica del-

 

l’Impero, era quella della concorrenza economica che po-

 

teva dannosamente interferire sugli sviluppi della colo-

 

nizzazione demografica, da parte dei meno costosi prodot-

 

ti dell’agricoltura indigena.

 

     Era una preoccupazione di grande rilievo, almeno nel-

 

la prima fase, fino a quando, cioè, una sicura sperimenta-

 

zione non avrebbe potuto indirizzare la colonizzazione de-

 

mografica verso alcuni tipi di colture ricche adatte allo

 

ambiente particolare (per esempio arboricole), e special-

 

mente idonee alla ben più avanzata agricoltura del coloniz-

 

zatore bianco. Ora, il recare alla colonizzazione demogra-

 

fica, a mezzo della collaborazione accennata, almeno un

 

parziale contributo del minor costo del lavoro indigeno,ci

 

sembra fosse un mezzo particolarmente adatto ad attenuare

 

quella giusta preoccupazione.

 

     Si è accennato,inoltre, alle vaste possibilità virtua-

 

li di colonizzazione dell’Impero; ma per porle in atto pra-

 

ticamente non si poteva che procedere con la dovuta gradua-

 

lità e con il dovuto tempismo, in relazione alla graduale e

 

progressiva organizzazione civile del territorio, in parti-

 

colare per la indispensabile rete di comunicazioni stradali.

 

     Vi erano, in realtà, territori di grande ricchezza e

 

possibilità produttive, potenzialmente idonei a crearvi, in

 

vasta misura, nuove sedi di vita rurale metropolitana.

 

     Ma in quella fase iniziale, a causa del loro completo

 

isolamento e per l’assoluta assenza di comunicazioni, non

 

potevano esser tenuti presenti, e ciò fino alla rimozione

 

di quell’isolamento, attraverso le necessarie costruzioni

 

stradali e una adeguata organizzazione civile.

 

     Prescindere dall’accennato concetto di gradualismo,

 

specialmente in quella prima fase, avrebbe causato l’andare

                       

incontro a gravi insuccessi tecnici e a sicuri fallimenti

 

economici, pregiudicando il raggiungimento della meta ago-

 

gnata.

 

     Avrebbe significato, in definitiva, l’inevitabile ri-

 

corso ad onerosissimi interventi statali, segno di gravi er-

 

rori e grave colpa.

 

     Su questo il Governo non ammetteva repliche: “ L’Impero

 

offre notevoli possibilità di attivazioni economiche in tut-

 

ti i settori (agricolo, industriale, commerciale).

 

     Se lo Stato deve necessariamente provvedere, con un in-

 

gentissimo sforzo finanziario, alla preorganizzazione civile

 

fondamentale di un così vasto territorio, dato il suo primi-

 

tivo stato di barbarica amministrazione, e se d’altra parte

 

l’Impero contiene in sé notevolissimi elementi di ricchezza,

 

sembra assurdo e addirittura colpevole pensare di attingere,

 

a fondo perduto, alle casse dello Stato, quei mezzi che qua-

 

lunque organizzatore e qualunque amministratore responsabile

 

e consapevole devono saper provvedersi, non a titolo gratui-

 

to ma equamente oneroso, per lo svolgimento di una attività

 

che, condotta con le necessarie preparazione e saggezza, può

 

e deve impostarsi su basi economicamente sane e quindi red-

 

ditizie”.

 

     E ancora:

 

“Ci sembra che solo sulla saggia valorizzazione delle risor-

                    

se locali, si debba fare assegnamento per la conveniente

 

impostazione economica dell’impresa, il cui successo sareb-

 

be sommamente errato e pregiudizievole far dipendere da più

 

o meno larghe contribuzioni gratuite dello Stato.

 

     Si tenga presente che i territori di cui parliamo non

 

sono lontanamente paragonabili a quelli miseri e desertici

 

di altri nostri precedenti possessi coloniali, dove diffi-

 

cilmente senza un ausilio statale a fondo perduto, il suc-

 

cesso economico può assicurarsi, specie quando all’impresa

 

si impongono compiti di carattere demografico-sociale”.(*)

 

 

 

____________________

 

(*) TERUZZI A., Realtà costruttiva dell’Impero in “Annali

    dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona, A.Mondadori,

    1939-XVII.

 

 

 

     Era evidente come solo seguendo in maniera attenta e

 

scrupolosa, al limite della pignoleria, le direttive emana-

 

te, si potesse nutrire la più ampia speranza di successo di

 

tutta l’operazione.

 

   Vediamo ora da quali categorie poteva attingersi la mas-

 

sa di uomini per una vasta colonizzazione demografica.

 

     Da uno studio del prof. Mazzocchi-Alemanni, Ispettore

 

Generale dell’O.N.C., viene tratta la seguente premessa:

 

     “E’noto il carattere delle nostre precedenti emigrazio-

 

ni transoceaniche, formate, nella grandissima maggioranza,

 

da mano d’opera non specializzata, proveniente soprattutto

                     

dalla disoccupazione del nostro bracciantato rurale e urbano

 

in cerca di sicuri e alti salari. Difficilmente il colono

 

mezzadro o partecipante, e tanto meno il piccolo proprieta-

 

rio coltivatore, lasciavano la propria terra per tentare le

 

vie della ventura con tutti i sacrifici connessi”.(*)

 

     Occorreva non dimenticare ciò, al momento che si trat-

 

tava di colonizzare un Impero; vale a dire non più poveri e

 

modesti lembi delle nostre vecchie colonie, nei quali si po-

 

teva condurre qualche sia pur ammirevole ma esiguo esperi-

 

 

________________

 

(*) MAZZOCCHI-ALEMANNI N.,Della nostra emigrazione in rap-

porto alla valorizzazione delle nostre colonie di di-

retto dominio, in “Atti della Reale Accademia dei Geor-

gofili”, Firenze, 1923.

 

 

mento di colonizzazione, e che permettevano ed anzi impone-

 

vano la scelta di vere famiglie rurali specializzate nei la-

 

vori dei campi e nella conduzione di aziende agrarie.

 

     Sarebbero state quelle stesse imponenti masse di una

 

volta - alle quali non era più permesso che dirompessero per

 

il mondo, e che furono utilizzate dal Regime occupandole nel-

 

l’imponente attrezzatura edile, stradale, bonificatoria della

 

Nazione - masse bracciantili e prevalentemente generiche sul-

 

le quali si sarebbe dovuta fondare la grande opera di colo-

 

nizzazione demografica dell’Impero.

 

     Previste, fin dall’inizio, selezioni e scelte, nonché

 

opere di preparazione, istruzione e avviamento per il perso-

 

nale dirigente.

 

     Ma quando le necessarie preorganizzazioni ambientali

 

fossero giunte ad attuazione, da avviare alla colonizzazio-

 

ne dell’Impero sarebbero state quelle stesse masse indiffe-

 

renziate, nel prevalente tipo generico di non specificata

 

preparazione rurale.

 

     Tuttociò, evidentemente, imponeva una difficile opera

 

di rieducazione, volta a trasformare, nel modo più comple-

 

to possibile, la mentalità salariale delle masse colonizza-

 

trici in una mentalità contadino-colonica.

 

     Poiché se il salariato è inconcepibile come sistema di

 

una colonizzazione a tipo demografico-poderale, per eviden-

 

ti ragioni di convenienza economica, altre considerazioni

 

sconsigliano l’adozione di un tale sistema.

 

     Intanto, l’opera di colonizzamento aveva proprio il fi-

 

ne di provvedere, in misura anche più vasta di quel che non

 

fosse possibile fare nel Regno, alla “sbracciantizzazione”

 

(non solo materiale, ma anche psicologica) delle nostre mas-

 

se disoccupate. La valorizzazione rurale dell’Impero, per un

 

paese come il nostro - non ricco di capitali e che comunque

 

doveva affrontare ingenti sacrifici finanziari per la prima

 

attrezzatura civile dell’Impero - per un paese che, vicever-

 

sa, sovrabbondava di braccia, doveva basarsi essenzialmente

 

sulla direttiva della trasformazione della forza-lavoro in

 

risparmio-terra.

 

     In sostanza, i lavoratori d’Italia dovevano, nell’Impe-

 

ro, conquistare con le proprie braccia la dignità sociale

 

della proprietà.

 

     E’ evidente come, per la realizazione di una colonizza-

 

zione di tale portata, e basata su tali elementi, fosse indi-

 

spensabile l’azione di una particolarmente robusta organizza-

 

zione.

 

     A tale organizzazione non potevano provvedere certamente

 

i privati, né avrebbe potuto utilmente provvedervi, in modo

 

diretto, lo Stato, ma solo specifici Enti(*) opportunamente e 

 

adeguatamente attrezzati, con l’incarico di svolgere la loro

 

attività non con fini speculativi,ma come veri e propri stru-

 

menti dello Stato per la realizzazione delle sue direttive

 

economico-sociali in tale settore.

 

     A questi Enti veniva così affidata la grande responsabi-

 

lità di organizzare la prima colonizzazione demografica dello

 

Impero.

 

     Un impegno gravoso ma una sfida stimolante, e lo Stato

 

aveva tutti i diritti di pretendere particolarissime “garan-

 

zie di ordine tecnico, economico, finanziario, organizzativo

 

e morale” da parte degli Enti stessi.

                   

     Enti che dovevano offrire, nella loro struttura costi-

 

tutiva e nelle documentate preparazione e capacità tecnico-

 

organizzative dei dirigenti prepostivi, la più solida garan-

 

zia per assolvere pienamente il compito loro affidato.

 

     L’obiettivo non era solo quello di evitare insuccessi

 

tecnici ed economici, bensì di tener presente che ai detti

 

Enti era affidata l’esistenza e l’avvenire di famiglie ita-

 

liane, per le quali, ove la capacità e la consapevolezza

 

 

 

_______________________

 

(*) Nei capitoli successivi, descrizione dei principali

    Enti chiamati a prestare la loro collaborazione.

 

 

dell’Ente fosse venuta comunque a mancare, si sarebbe pro-

 

filato, oltre al disastro materiale, l’essere sopraffatte

 

dalle più avvilenti delusioni e dalle più mortificanti de-

 

vastazioni psicologiche e morali.

 

    In questo settore - pensiero imperante nell’epoca -

 

ogni improvvisazione sarebbe stata non solo deleteria, ma

 

indiscutibilmente colpevole.

 

 

_______________________

 

Tratto da MAZZOCCHI-ALEMANNI N., Orientamenti nella Coloniz-

zazione demografica dell’Impero, Estratto dagli “Atti della

Reale Accademia dei Georgofili”, Firenze, Tipografia Mariano

Ricci, 1938-XVI.

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