Era
evidente come, tali limiti, potessero e dovessero
considerarsi “spostabili” in relazione alla vita dei
coloni
bianchi.
Tuttavia,
la zona ideale che sembrava più confacente a
una vasta immissione di nuovi lavoratori, appariva quella
tra i 1800 e i 2400 metri.
Quanto
alle altre dimensioni, si poteva affermare -
sempre ai fini della colonizzazione che ci interessava, e
sempre ferma restando la sommaria limitazione altimetrica
accennata - che il territorio presentava incoraggianti at-
titudini alle necessità della colonizzazione demografica,
procedendo da est verso ovest. Nel senso poi nord-sud, ta-
li attitudini si riscontravano particolarmente nella parte
centrale.
In
conclusione, la zona centro-occidentale dell’Impe-
ro era quella che si presentava,in prima approssimazione,
come la più rispondente alla realizzazione di una vasta co-
lonizzazione demografica metropolitana.
Vasta
perché “nessun altro territorio dei nostri pos-
sedimenti d’oltre mare, né di altre regioni africane da
noi
conosciute” - ad esempio gli altipiani del Kenia e del Tan-
ganica e quelli dell’Ovest africano angolese - “sembrava
offrire, nel complesso, più vaste superfici adatte per un
notevole sviluppo di vita rurale europea”.
Era
opinione comune che l’Impero potesse offrire note-
volissime possibilità in tal senso; si trattava, in fin dei
conti, di territori “la cui ampiezza complessiva si poteva
commisurare nell’ordine di grandezza di diverse province
italiane riunite insieme”.
E
tutto questo considerando esclusivamente l’aspetto
fisico del territorio, e al di fuori di ogni considerazione
limitativa di altro ordine (economico, sociale, politico),
nonché problemi organizzativi del territorio, come comuni-
cazioni, mercati, trasporti ecc.
Esaminando
in seconda approssimazione il territorio
considerato ai fini della colonizzazione demografica, c’era
un’altra realtà, di grande importanza, da tener presente:
l’esistente notevole popolamento del territorio utile.
Questo
era uno degli aspetti di indiscutibile interes-
se, in quanto “ la popolazione di un territorio rappresenta
il fattore fondamentale del suo valore, e non un semplice
accessorio”.
Alle
prime superficiali analisi, il territorio dello
Impero appariva quasi spopolato. Ragioni contingenti, modi
particolari d’insediamento che, in rapporto al paese, si
poteva definire “mimetico”, nonché altri elementi,
indusse-
ro in errore i primi osservatori.
C’erano
si, zone meno popolate, soprattutto quelle
dell’ovest e del sud-ovest, ma per ragioni non attinenti a
deficienze fisiche del territorio (regioni, queste, tra le
migliori dell’Impero), bensì conseguenti a particolari de-
terminanti politiche, e cioè alla barbarica amministrazio-
ne spoliatrice e terroristica attuatavi dai dominatori di
razza Amhara che, in alcuni territori, come ad esempio nel
Caffa, con la sterminatrice “tratta degli schiavi”, ne
de-
terminò il quasi completo annullamento demografico.
Tale
situazione avrebbe avuto evidentemente particola-
ri riflessi sugli sviluppi e sui modi della colonizzazione
metropolitana di tali regioni. Ma, ad eccezione di tali zo-
ne, in linea generale era da confermare il notevole popola-
mento del territorio che ci interessava.
Abbiamo
già sottolineato, del resto, il pensiero impe-
rante secondo cui “il popolamento di un territorio rappre-
senta la base fondamentale della sua importanza e del suo
valore”.
Infatti,
è assiomatico che “ una massa di più milio-
ni di uomini rappresenta, oltre ad un grande valore socia-
le, una notevole forza economica e politica, e che saper-
sela accattivare significa raggiungere un conseguente au-
mento di potenza”.
Era
opinione comune che, la frenetica e considerata
ignominiosa avversione alla nostra impresa africana, venne
suscitata e guidata da egoismi di pantagrueliche nazioni
non certo per i più o meno numerosi chilometri quadrati
“guadagnati alle braccia del nostro proletariato
agricolo”,
ma essenzialmente per i milioni di uomini acquisiti alla
italica possibilità organizzativa, considerati “un
eccezio-
nale aumento del nostro prestigio politico e della nostra
potenza economica e militare”.
Terza approssimazione: l’accennata massa di popolazione vi-
vente nei territori considerati, era dedita essenzialmente
all’agricoltura e alla pastorizia, attività che
costituiva-
no la base dell’economia locale.
Si
è rilevato come in tali territori, ovunque fosse
possibile l’esercizio utile di una sia pur modesta agricol-
tura, tale attività vi veniva esercitata con una relativa
intensità, limitatamente - è chiaro! - ai poveri mezzi e
alle modalità primitive degli indigeni.
Sulle più alte pendici, sulle cime montane, sui pianori
del miglior terreno - fino ed oltre i 3000 metri sul ma-
re - non v’era territorio, passibile di qualche produzio-
ne agraria, dove l’indigeno non applicasse la propria at-
tività rurale con una tecnica che per essere, come si è
detto, primitiva, non mancava tuttavia di una tenace ac-
cortezza: terrazzamenti eseguiti con faticosissima cura,
lavorazioni molteplici attuate fino a cinque volte per il
più completo approntamento del terreno stesso prima di af-
fidarvi la semente, sono l’indice della paziente fatica con
la quale, specie le popolazioni Galla, attendevano alla
propria agricoltura.
Viaggiando
sul territorio, e soprattutto sorvolandolo
a bassa quota con l’aereo, non si poteva non rimanere col-
piti dalla innumerevole e minuta scacchiera di campi colti-
vati che caratterizzava tutto il territorio, ovunque fosse
agrariamente utilizzabile.
“Campi
di frumento, orzo, farinacei in genere, alter-
nati a zone di pascolo e terreni a turno di riposo, si mol-
tiplicano allo sguardo per ore e ore di volo in tutte le
direzioni del territorio disseminato di tucul (tipica ca-
panna dell’agricoltore indigeno), caratteristicamente uni-
ti sotto l’immancabile ciuffo di eucalipti e di ginepri”.
Anche questa caratteristica era importante non sottovalu-
tare, dovendo impostare realistici programmi di colonizza-
zione metropolitana.
Prescinderne,
avrebbe costituito, oltre ad una puerile
ingenuità, grave errore dal punto di vista non solo econo-
mico ma politico, mettendo a rischio il successo dell’inte-
ra missione.
Per
quanto concerne la proprietà e il possesso, la si-
tuazione di fatto si rivelava notevolmente complessa, e
l’Italia non poteva concedersi il lusso di non considerar-
la in maniera adeguata.
“Il
diritto di uno Stato dominatore civile, diritto
incoercibile e incontrovertibile - specialmente quando, co-
me nel caso italiano, nasce da una vittoriosa conquista in
funzione di colonizzazione - non può tuttavia distruggere
reali diritti delle popolazioni indigene, nei limiti delle
loro imprescindibili necessità di vita”.(*)
Ciò
venne chiaramente e solennemente affermato all’at-
to della proclamazione dell’Impero.
Il
che non significa che lo Stato dominatore non do-
___________________
(*)
POGGIALI C., Albori dell’Impero. L’Etiopia: com’è e co-
me sarà., Bergamo, Ed.Treves, 1938-XVI.
vesse e non potesse regolamentare, secondo i propri fini
sociali di colonizzazione e di “vivificazione” del terri-
torio, tutta la materia concernente tale complesso proble-
ma.
Da
autorevoli studiosi, particolarmente introdotti
nella materia, venne affermato “doversi assumere come pun-
to fermo, che l’acquisto di territori in funzione di colo-
nizzazione, qualifica il rapporto che si costituisce nei
riguardi del territorio” e fu dimostrata “la vacuità di
certi principi che alcuni colonialisti amano proclamare
col titolo di politica indigena e cioè che lo Stato non
dovrebbe intervenire nelle istituzioni indigene anche fon-
diarie, ma lasciarle vivere secondo la tradizione e le co-
stumanze millenarie. Se
vi è materia in cui lo Stato deve
intervenire è proprio questa, e ve lo conduce fatalmente
la sua missione” (*).
Si
trattava, naturalmente, di determinare i più op-
portuni modi, tempi e limiti.
Non
si ha, in questa sede, interesse ad entrare nella
_____________________
(*)
COLUCCI M., Elementi per lo studio degli ordinamenti
dell’A.I. - I presupposti storici e giuridici,in “Ri-
vista Diritto Agrario”, Firenze, aprile-giugno 1937-XV.
complessa materia del diritto fondiario indigeno, soprat-
tutto relativamente ad un territorio di popolazioni e stir-
pi così varie e diverse le une dalle altre; non si vuole
neanche entrare nel merito delle più o meno incerte origi-
ni di tale diritto, con i suoi vari adattamenti e trasfor-
mazioni nel tempo e nello spazio; non tratteremo, inoltre,
neppure del più limitato campo dei rapporti tra proprietà
e lavoro, cioè dei “contratti agrari” che, pur essendo
di
competenza della nazione colonizzatrice, non erano certa-
mente precisati, nell’epoca in questione, in tutta la va-
sta gamma della loro esplicazione.
Quello
che si desidera specificare in tale paragrafo
si limita all’affermazione della necessità di chiarire il
concetto stesso del diritto fondiario indigeno, nella sua
accezione più ampia, nonché dell’accertamento dei
rapporti
tra gli indigeni e la terra.
Questo
si traduce, rapportato ai tempi oggetto della
presente ricerca, nel “presupposto evidente di un futuro
ordinamento, definitivo ed adeguato, di tutta la materia
delle concessioni terriere per la colonizzazione italia-
na”.(*)
____________________
(*)
ASQUINI A., La politica economica dell’Italia in Etio-
pia in “Annali dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona,
A.Mondadori, 1938-XVI.
Ma
la considerazione più importante da fare è che, non
potendo l’Italia aspettare gli esiti di tale completa rile-
vazione, che per la sua complessità e per il suo particola-
re carattere avrebbe richiesto troppo tempo, si superò in
una prima fase tale pregiudiziale, così da potere ugualmen-
te avviare programmi di colonizzazione demografica in atte-
sa del completamento di quelle rilevazioni.
Si
decise, giustamente, di non turbare in maniera pro-
fonda, specialmente in un primo tempo, i rapporti che lega-
vano il lavoratore indigeno alla terra, non solo per evi-
denti interessi di opportunità politica, ma anche per esi-
genze di mera convenienza economica.
In
una pubblicazione del prof. Mazzocchi-Alemanni (*)
del 1918, compilata sulla scorta di una non breve esperien-
za di colonizzazione del territorio libico, si scriveva:
“L’indigeno che ha il proprio campo da coltivare, che
dalla
propria terra trae il sostentamento della famiglia, soprat-
tutto se ha la garanzia di poter tranquillamente attendere
ai propri lavori, è elemento conservatore per eccellenza;
______________________
(*)MAZZOCCHI-ALEMANNI
N., L’Agricoltura nella politica co-
loniale, Zuara (Tripoli), marzo 1918, riprodotta in “A-
gricoloniale”, Firenze, giugno-luglio 1919.
ed è facile assai, anche per una elementare capacità ammi-
nistrativa e politica, tenerlo saldo contro lusingatrici
follie ribelli. Questa è penetrazione di non dubbio risul-
tato, è politica che non tradisce”.
E
ancora:
“Rallentando i vincoli che legano il colono indigeno alla
terra, sminuendo l’interesse di questo all’esplicazione
di
una intensa attività agricola, toltagli la fisionomia di
comunque compartecipe agli utili, avremo di costui fatto un
operaio più o meno disinteressato all’andamento
dell’azien-
da: avremo,ciecamente, trasformato un’intera classe di par-
tecipanti alla produzione - elementi di ordine e di tran-
quillità - in una massa di proletariato facilmente turbo-
lento e sul quale pronta presa possono avere idee e lusin-
ghe di ribellione. Avremo, insomma, con la nostra opera ne-
gativa, compiuto un grande errore politico che potrebbe
tornarci sommamente infausto”.
E’
stupefacente come, nonostante i quasi trent’anni
trascorsi, nulla fosse da cambiare in merito a quanto so-
pra, sintesi di un antico pensiero.
Ma,
a parte le considerazioni d’ordine sociale e poli-
tico, già allora si affermava l’essere indubbio interesse
economico non sradicare il contadino indigeno dal lavoro
della terra perché, contrariamente al pensiero di chi non
aveva mai vissuto l’organizzazione di una qualsiasi attivi-
tà agraria in paese similari, si riteneva la collaborazio-
ne, almeno parziale, del coltivatore e pastore indigeno,
particolarmente utile e valida ai fini della sana imposta-
zione economica di una colonizzazione anche demografica.
Per
quanto concerne l’argomento “terre disponibili”,
gli interrogativi abbondavano:
- “Come ci si potrà inserire nella realtà di popolamento
e di
agricoltura indigena ai fini del colonizzamento
metropolitano?”
- “Sarà possibile attivare in un simile territorio una
concreta
e proficua nostra attività rurale a tipo de-
mografico?”
- “Sarà possibile operare con efficacia in tale attività
agraria
indigena?”
La
risposta, univoca, a tutti questi interrogativi
non poteva che essere positiva, e questo senza danni di
natura economica e senza alcun turbamento politico.
C’è
da confermare come sussistessero, in vastissime
zone (ovest e sud-ovest), ampi territori di scarso popola-
mento, ciò nonostante ottimi dal punto di vista della pos-
sibile vita attiva dei nostri rurali.
Problemi
tecnici particolari, in tali zone, non erano
di più difficile soluzione che altrove.
Erano,
inoltre, proprio quelle zone, dove anche i pro-
blemi di carattere fondiario presentavano soluzioni ancor
più semplici, rapportati ad una nostra vasta inserzione co-
lonizzatrice.
Si
aggiunga come, anche nei territori più popolati e
coltivati, non mancassero terre vacanti per ragioni diver-
se, comprese vaste zone demaniali.
La
ricognizione di tali terre avrebbe comportato ne-
cessariamente tempi lunghi, ma sarebbe stata effettuata to-
talitariamente. Questo avrebbe sicuramente facilitato la
costituzione, tramite accordi speciali, dei necessari ac-
corpamenti di zone organiche per la colonizzazione demogra-
fica.
Altra
considerazione di importanza non secondaria, ri-
guarda tutte quelle terre che non potevano essere utilizza-
te, sotto il profilo agrario, per il loro accertato stato
di disordine idraulico.
Non
ci si riferisce alle zone fuori del territorio og-
getto del nostro interesse, né di zone, pur esistenti in
detto territorio,ma che avrebbero richiesto imponenti e co-
stose opere di sistemazione, le quali, in una ragionevole
gerarchia di priorità, non rientravano in quel momento tra
le urgenze; bensì parliamo di quelle più o meno sparse zone
di terreno - talvolta anche di notevole estensione - nelle
quali opere relativamente modeste di sistemazione idraulica
sarebbero state sufficienti a conquistarle alla colonizza-
zione agricola.
Terreni
che, per essere generalmente di origine allu-
vionale e giacenti in piano, potevano essere suscettibili,
una volta risanati, della maggiore produttività.
Specialmente
lungo le direttrici di comunicazione e
nelle adiacenze di centri e di mercati, la modesta spesa ad
ettaro occorrente per il risanamento,avrebbe trovato la più
larga giustificazione e il più sicuro e rapido compenso.
Tutto
ciò portava a concludere che “non sarà da temere
una scarsa disponibilità di terra ai fini della colonizza-
zione che ci interessa”.(*)
Naturalmente,
tale disponibilità sarebbe progressiva-
mente aumentata col progredire della organizzazione civile
della colonia, particolarmente con il progredire della rete
stradale del territorio.
___________________
(*)
ASQUINI A., La politica economica dell’Italia in Etio-
pia in “Annali dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona,
A.Mondadori, 1938-XVI.
Era
comunque opinione comune che, in attesa del lungo
lavoro di ricognizione dei terreni, si potesse, senza trop-
pa difficoltà, avviare una notevole opera di colonizzazione
demografica anche nelle zone più popolate e coltivate.
Uno
dei modi per realizzare ciò era quello delle per-
mute, mezzo che, saputo accortamente manovrare, avrebbe po-
tuto dare notevoli risultati. Si trattava, come dice la pa-
rola, di concordare con i proprietari di una determinata zo-
na che si voleva colonizzare, il cambio dei loro terreni con
terreni in altra zona di pertinenza demaniale, o dei quali,
comunque, il Governo avesse la disponibilità (confische di
guerra, donazioni, ecc.).
L’accordo
non era troppo difficile a concretarsi. Si
trattava, talvolta, di compensare differenze di valore, con
ragguagli di ampiezza, con concessione di particolari premi
o piccole opere utili (pozzi, abbeveratoi, ausilio nelle ri-
costruzioni di tucul ecc.).
Ma
l’accorgimento più utile nel realizzare tali permu-
te, stava nel non allontanare dal territorio la popolazione
contadina indigena: mentre il proprietario passava al nuovo
terreno datogli in permuta, il contadino restava sul vec-
chio. Ciò rispondeva all’accennata opportunità economica
di
associare in vario modo, ed essenzialmente attraverso forme
di compartecipazione più o meno consuetudinarie, il lavoro
degli indigeni (coltivatori e pastori) all’azienda poderale
metropolitana.
E’
anche evidente il notevole contenuto politico di ta-
le direttiva, per la quale, ad esempio, 50 proprietari veni-
vano spostati e 2000 contadini restavano sul posto, poiché
solo in tal modo le popolazioni indigene non allontanate
dalle
proprie sedi e dal proprio consueto lavoro, potevano
contribuire alla valorizzazione metropolitana del territo-
rio e, assicurando a se stesse migliori condizioni di vita,
diventavano le più pacifiche e utili collaboratrici della
italica opera di penetrazione civile.
Abbiamo
visto come fosse senza meno indubbia la conve-
nienza pratica di utilizzare, nell’azienda, il lavoro indi-
geno nelle forme sopra accennate.
Si
trattava di integrare la capacità lavorativa della
famiglia colonica italiana con forme salariali e, soprattut-
to, di compartecipazione indigena, così da consentire alla
famiglia colonica stessa, fin dal primo tempo di ambienta-
mento e di esecuzione delle opere di trasformazione fondia-
ria, di valorizzare in pieno l’intera superficie poderale
destinatale.
Tale
superficie doveva essere necessariamente di note-
vole ampiezza, per fornire alla famiglia stessa la possibi-
lità di una vita conveniente, in relazione al proprio svi-
luppo demografico, e la possibilità di un agevole e non lon-
tano riscatto del podere.
Inoltre
(e ciò era da tenere particolarmente presente
a proposito di alcune preoccupazioni d’ordine politico-so-
ciale), una tale direttiva avrebbe giovato a dare una mag-
giore dignità alla famiglia colonica metropolitana, desti-
nata così ad assumere, nella propria sia pur modesta azien-
da rurale, il vero e proprio comando dell’impresa.
Altro
problema particolarmente sentito era quello re-
lativo “ai pericoli della promiscuità”. Per evitarli,
non
erano sufficienti leggi all’uopo promulgate, ma era neces-
sario creare, nella mentalità del colonizzatore, la deter-
minante del maggior prestigio del colono metropolitano.
Si
era individuata la risoluzione del problema prov-
vedendo alla più opportuna dislocazione degli abitati po-
derali (case delle famiglie metropolitane opportunamente
distanziate dai tucul degli indigeni) con soluzioni diver-
se, una delle quali poteva essere quella adottata dalla
O.N.C., esplicitata con capitolo a parte.
Ma
ad un’altra opportunità rispondeva la direttiva
accennata. Una delle più giustificate preoccupazioni nel-
l’impostare programmi di colonizzazione demografica del-
l’Impero, era quella della concorrenza economica che po-
teva dannosamente interferire sugli sviluppi della colo-
nizzazione demografica, da parte dei meno costosi prodot-
ti dell’agricoltura indigena.
Era
una preoccupazione di grande rilievo, almeno nel-
la prima fase, fino a quando, cioè, una sicura sperimenta-
zione non avrebbe potuto indirizzare la colonizzazione de-
mografica verso alcuni tipi di colture ricche adatte allo
ambiente particolare (per esempio arboricole), e special-
mente idonee alla ben più avanzata agricoltura del coloniz-
zatore bianco. Ora, il recare alla colonizzazione demogra-
fica, a mezzo della collaborazione accennata, almeno un
parziale contributo del minor costo del lavoro indigeno,ci
sembra fosse un mezzo particolarmente adatto ad attenuare
quella giusta preoccupazione.
Si
è accennato,inoltre, alle vaste possibilità virtua-
li di colonizzazione dell’Impero; ma per porle in atto pra-
ticamente non si poteva che procedere con la dovuta gradua-
lità e con il dovuto tempismo, in relazione alla graduale e
progressiva organizzazione civile del territorio, in parti-
colare per la indispensabile rete di comunicazioni stradali.
Vi
erano, in realtà, territori di grande ricchezza e
possibilità produttive, potenzialmente idonei a crearvi, in
vasta misura, nuove sedi di vita rurale metropolitana.
Ma
in quella fase iniziale, a causa del loro completo
isolamento e per l’assoluta assenza di comunicazioni, non
potevano esser tenuti presenti, e ciò fino alla rimozione
di quell’isolamento, attraverso le necessarie costruzioni
stradali e una adeguata organizzazione civile.
Prescindere
dall’accennato concetto di gradualismo,
specialmente in quella prima fase, avrebbe causato l’andare
incontro a gravi insuccessi tecnici e a sicuri fallimenti
economici, pregiudicando il raggiungimento della meta ago-
gnata.
Avrebbe
significato, in definitiva, l’inevitabile ri-
corso ad onerosissimi interventi statali, segno di gravi er-
rori e grave colpa.
Su
questo il Governo non ammetteva repliche: “ L’Impero
offre notevoli possibilità di attivazioni economiche in tut-
ti i settori (agricolo, industriale, commerciale).
Se
lo Stato deve necessariamente provvedere, con un in-
gentissimo sforzo finanziario, alla preorganizzazione civile
fondamentale di un così vasto territorio, dato il suo primi-
tivo stato di barbarica amministrazione, e se d’altra parte
l’Impero contiene in sé notevolissimi elementi di
ricchezza,
sembra assurdo e addirittura colpevole pensare di attingere,
a fondo perduto, alle casse dello Stato, quei mezzi che qua-
lunque organizzatore e qualunque amministratore responsabile
e consapevole devono saper provvedersi, non a titolo gratui-
to ma equamente oneroso, per lo svolgimento di una attività
che, condotta con le necessarie preparazione e saggezza, può
e deve impostarsi su basi economicamente sane e quindi red-
ditizie”.
E
ancora:
“Ci sembra che solo sulla saggia valorizzazione delle
risor-
se locali, si debba fare assegnamento per la conveniente
impostazione economica dell’impresa, il cui successo sareb-
be sommamente errato e pregiudizievole far dipendere da più
o meno larghe contribuzioni gratuite dello Stato.
Si
tenga presente che i territori di cui parliamo non
sono lontanamente paragonabili a quelli miseri e desertici
di altri nostri precedenti possessi coloniali, dove diffi-
cilmente senza un ausilio statale a fondo perduto, il suc-
cesso economico può assicurarsi, specie quando all’impresa
si impongono compiti di carattere demografico-sociale”.(*)
____________________
(*)
TERUZZI A., Realtà costruttiva dell’Impero in “Annali
dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona, A.Mondadori,
1939-XVII.
Era
evidente come solo seguendo in maniera attenta e
scrupolosa, al limite della pignoleria, le direttive emana-
te, si potesse nutrire la più ampia speranza di successo di
tutta l’operazione.
Vediamo
ora da quali categorie poteva attingersi la mas-
sa di uomini per una vasta colonizzazione demografica.
Da
uno studio del prof. Mazzocchi-Alemanni, Ispettore
Generale dell’O.N.C., viene tratta la seguente premessa:
“E’noto
il carattere delle nostre precedenti emigrazio-
ni transoceaniche, formate, nella grandissima maggioranza,
da mano d’opera non specializzata, proveniente soprattutto
dalla disoccupazione del nostro bracciantato rurale e urbano
in cerca di sicuri e alti salari. Difficilmente il colono
mezzadro o partecipante, e tanto meno il piccolo proprieta-
rio coltivatore, lasciavano la propria terra per tentare le
vie della ventura con tutti i sacrifici connessi”.(*)
Occorreva
non dimenticare ciò, al momento che si trat-
tava di colonizzare un Impero; vale a dire non più poveri e
modesti lembi delle nostre vecchie colonie, nei quali si po-
teva condurre qualche sia pur ammirevole ma esiguo esperi-
________________
(*)
MAZZOCCHI-ALEMANNI N.,Della nostra emigrazione in rap-
porto
alla valorizzazione delle nostre colonie di di-
retto
dominio, in “Atti della Reale Accademia dei Geor-
gofili”,
Firenze, 1923.
mento di colonizzazione, e che permettevano ed anzi impone-
vano la scelta di vere famiglie rurali specializzate nei la-
vori dei campi e nella conduzione di aziende agrarie.
Sarebbero
state quelle stesse imponenti masse di una
volta - alle quali non era più permesso che dirompessero per
il mondo, e che furono utilizzate dal Regime occupandole nel-
l’imponente attrezzatura edile, stradale, bonificatoria
della
Nazione - masse bracciantili e prevalentemente generiche sul-
le quali si sarebbe dovuta fondare la grande opera di colo-
nizzazione demografica dell’Impero.
Previste,
fin dall’inizio, selezioni e scelte, nonché
opere di preparazione, istruzione e avviamento per il perso-
nale dirigente.
Ma
quando le necessarie preorganizzazioni ambientali
fossero giunte ad attuazione, da avviare alla colonizzazio-
ne dell’Impero sarebbero state quelle stesse masse indiffe-
renziate, nel prevalente tipo generico di non specificata
preparazione rurale.
Tuttociò,
evidentemente, imponeva una difficile opera
di rieducazione, volta a trasformare, nel modo più comple-
to possibile, la mentalità salariale delle masse colonizza-
trici in una mentalità contadino-colonica.
Poiché
se il salariato è inconcepibile come sistema di
una colonizzazione a tipo demografico-poderale, per eviden-
ti ragioni di convenienza economica, altre considerazioni
sconsigliano l’adozione di un tale sistema.
Intanto,
l’opera di colonizzamento aveva proprio il fi-
ne di provvedere, in misura anche più vasta di quel che non
fosse possibile fare nel Regno, alla
“sbracciantizzazione”
(non solo materiale, ma anche psicologica) delle nostre mas-
se disoccupate. La valorizzazione rurale dell’Impero, per
un
paese come il nostro - non ricco di capitali e che comunque
doveva affrontare ingenti sacrifici finanziari per la prima
attrezzatura civile dell’Impero - per un paese che,
vicever-
sa, sovrabbondava di braccia, doveva basarsi essenzialmente
sulla direttiva della trasformazione della forza-lavoro in
risparmio-terra.
In
sostanza, i lavoratori d’Italia dovevano, nell’Impe-
ro, conquistare con le proprie braccia la dignità sociale
della proprietà.
E’
evidente come, per la realizazione di una colonizza-
zione di tale portata, e basata su tali elementi, fosse indi-
spensabile l’azione di una particolarmente robusta
organizza-
zione.
A
tale organizzazione non potevano provvedere certamente
i privati, né avrebbe potuto utilmente provvedervi, in modo
diretto, lo Stato, ma solo specifici Enti(*) opportunamente e
adeguatamente attrezzati, con l’incarico di svolgere la
loro
attività non con fini speculativi,ma come veri e propri
stru-
menti dello Stato per la realizzazione delle sue direttive
economico-sociali in tale settore.
A
questi Enti veniva così affidata la grande responsabi-
lità di organizzare la prima colonizzazione demografica
dello
Impero.
Un
impegno gravoso ma una sfida stimolante, e lo Stato
aveva tutti i diritti di pretendere particolarissime
“garan-
zie di ordine tecnico, economico, finanziario, organizzativo
e morale” da parte degli Enti stessi.
Enti
che dovevano offrire, nella loro struttura costi-
tutiva e nelle documentate preparazione e capacità tecnico-
organizzative dei dirigenti prepostivi, la più solida garan-
zia per assolvere pienamente il compito loro affidato.
L’obiettivo
non era solo quello di evitare insuccessi
tecnici ed economici, bensì di tener presente che ai detti
Enti era affidata l’esistenza e l’avvenire di famiglie
ita-
liane, per le quali, ove la capacità e la consapevolezza
_______________________
(*)
Nei capitoli successivi, descrizione dei principali
Enti chiamati a prestare la loro collaborazione.
dell’Ente fosse venuta comunque a mancare, si sarebbe pro-
filato, oltre al disastro materiale, l’essere sopraffatte
dalle più avvilenti delusioni e dalle più mortificanti de-
vastazioni psicologiche e morali.
In
questo settore - pensiero imperante nell’epoca -
ogni improvvisazione sarebbe stata non solo deleteria, ma
indiscutibilmente colpevole.
_______________________
Tratto
da MAZZOCCHI-ALEMANNI N., Orientamenti nella Coloniz-
zazione
demografica dell’Impero, Estratto dagli “Atti della
Reale
Accademia dei Georgofili”, Firenze, Tipografia Mariano
Ricci,
1938-XVI.
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